Sportello Salute e Diritti
Un punto di riferimento per problemi con il sistema sanitario. Ascolto, tutela e azione per difendere il diritto alla salute.

Lo Sportello Salute e Diritti di ACP è un servizio attivo su tutto il territorio nazionale per aiutare i cittadini a orientarsi e difendersi nei casi di malasanità, liste d’attesa eccessive, prestazioni negate o danni sanitari, sia nella sanità pubblica che in quella privata. Raccogliamo segnalazioni, offriamo supporto informativo e ci attiviamo per far valere i diritti dei pazienti.
I problemi che ci segnalate più spesso
Ho l’impegnativa per un esame diagnostico con codice P (“programmabile”), che dovrebbe essere eseguita entro 60 giorni. Al Cup mi dicono che nella mia regione la prima disponibilità è a gennaio dell’anno successivo. Peggio ancora se il codice fosse B (“breve”), che richiede l’esame entro 10 giorni. Le strutture private chiedono cifre elevate: fino a 900 euro se si includono biopsie e istologici. Esiste una possibilità per ottenere l’esame nei tempi previsti dal Servizio Sanitario?
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Sì, esiste ed è poco conosciuta: si chiama “percorso di tutela”. È previsto dal Piano nazionale per la gestione delle liste d’attesa e riguarda tutti i codici di priorità: B (breve), D (differibile), P (programmabile). Se il Cup non è in grado di rispettare i tempi previsti, puoi inviare una richiesta formale alla tua ASL indicando:
- il codice di priorità riportato sull’impegnativa,
- la data della prescrizione,
- le date e i risultati dei tentativi di prenotazione.
La ASL ha l’obbligo di attivarsi per garantire la prestazione nei tempi, anche ricorrendo a strutture private convenzionate a carico del servizio pubblico. Nella pratica spesso la prima risposta è automatica o evasiva, ma insistendo in modo corretto e documentato si ottengono risultati concreti.
Mio padre ha 95 anni, è affetto da numerose patologie ed è ormai non autosufficiente. L’assistenza è totalmente a carico della famiglia, con l’aiuto di badanti. Attraverso il medico di famiglia abbiamo presentato domanda per l’assegno di accompagnamento, affidandoci a un patronato. Dopo due mesi, ci hanno convocati per la visita. È durata pochi minuti, e la risposta dell’INPS è stata negativa: invalidità al 90%, ma niente accompagnamento. È davvero così difficile ottenerlo? E perché le commissioni sembrano così rigide? Possiamo fare qualcosa?
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Purtroppo le segnalazioni come questa sono frequenti. Le commissioni medico-legali incaricate di valutare il diritto all’assegno di accompagnamento hanno margini di discrezionalità e in alcuni casi adottano criteri particolarmente restrittivi. Ma non tutto è perduto: se si ritiene che il diniego sia ingiusto, è possibile fare ricorso.
In genere si procede così:
- Una volta ricevuta la comunicazione dell’esito negativo, ci sono 30 giorni di tempo per avviare un ricorso;
- Il ricorso può essere presentato tramite un legale o un patronato;
- È consigliabile farsi assistere da un medico legale di parte, che possa redigere una relazione tecnica a sostegno del ricorso.
Il ricorso segue un iter giudiziario, ma in molti casi porta al riconoscimento del diritto negato. È importante documentare accuratamente la situazione sanitaria, la perdita di autonomia e le esigenze assistenziali quotidiane della persona interessata.
Si parla tanto di alimentazione e benessere, ma nei reparti ospedalieri e soprattutto nelle RSA il cibo spesso è di qualità scadente: piatti di plastica anche per le zuppe, sapori inesistenti, porzioni misere, poca varietà. In RSA la situazione è ancora peggiore, aggravata dal continuo cambio di personale, che crea disorientamento negli anziani. I familiari non possono portare cibo da casa, per motivi di sicurezza. Possibile che non si possa fare nulla?
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Il diritto a una nutrizione adeguata è parte integrante del diritto alla salute e alla dignità della persona. Se la qualità del cibo è palesemente inadeguata o compromette lo stato di salute dell’assistito, è possibile presentare un reclamo formale:
- All’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) della struttura;
- Oppure, se la struttura è accreditata, anche alla ASL di riferimento.
È utile allegare testimonianze, foto e – se possibile – una segnalazione scritta dell’assistito o dei familiari. Se il problema è ricorrente e condiviso da altri pazienti o parenti, si può valutare un’azione collettiva o mediatica per stimolare l’intervento dell’ente gestore.
È possibile restare quattro, cinque o sei giorni su una barella in pronto soccorso? Ogni inverno i disagi sono enormi, ma ormai la situazione è cronica tutto l’anno. Le Regioni parlano di piani per l’emergenza, ma concretamente nulla cambia. È normale tutto questo? Possiamo far valere qualche diritto?
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No, non è normale. Rimanere giorni in barella in pronto soccorso non è compatibile con un’assistenza dignitosa. Purtroppo, la situazione è legata alla carenza cronica di posti letto, personale e risorse.
Tuttavia, in presenza di un danno fisico o psicologico documentabile legato al ricovero improprio (es. infezioni, peggioramento delle condizioni, assenza di cure adeguate), è possibile valutare un’azione legale per malasanità.
In ogni caso:
- È sempre possibile inviare una segnalazione formale all’URP della struttura;
- Oppure rivolgersi a un’associazione di tutela per valutare l’attivazione di un intervento istituzionale o mediatico.
Anche se la pressione sugli ospedali è reale, nessuno può essere abbandonato in condizioni indegne.
Mia madre, 82 anni, dopo uno svenimento ha bisogno di una risonanza. Il Cup non dà date, nemmeno a sei mesi. In privato, l’esame costa 250 euro ed è disponibile in pochi giorni. Viene trovato un meningioma. Il neurologo chiede un controllo entro un mese e mezzo, ma di nuovo l’ospedale non prende in carico il percorso. Altra risonanza, altri 250 euro. Totale 500 euro in tre mesi per chi vive con 1.000 euro di pensione. È tutto normale?
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Purtroppo sì, è una dinamica sempre più frequente: chi può pagare, si cura prima. Ma non è accettabile. In situazioni come questa, si può attivare il cosiddetto “percorso di tutela”, previsto dal Piano nazionale per la gestione delle liste d’attesa.
Se il Cup non è in grado di garantire l’esame nei tempi previsti dal codice di priorità (B, D o P), la ASL ha il dovere di:
- trovare una soluzione interna,
- oppure autorizzare la prestazione in una struttura privata, a carico del sistema pubblico.
La richiesta va inviata in forma scritta, documentando i tentativi falliti di prenotazione. Le prime risposte sono spesso vaghe o negative, ma insistendo si possono ottenere risultati.
Si parla da anni di trasparenza, ma non esiste un sistema pubblico accessibile che permetta ai cittadini di conoscere i tempi di attesa per visite ed esami. Qualche ASL pubblica qualcosa, ma non è mai chiaro né aggiornato. È possibile ottenere una panoramica affidabile? E chi dovrebbe garantire questo diritto?
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La trasparenza sulle liste d’attesa dovrebbe essere un diritto fondamentale, ma in realtà è ancora lontana dall’essere garantita. Alcune Regioni o singole ASL pubblicano dati parziali, ma non esiste un sistema nazionale trasparente, aggiornato e consultabile in modo semplice dai cittadini.
Eppure, il monitoraggio è essenziale:
- per capire se i tempi previsti dai codici U, B, D e P sono rispettati;
- per orientare le scelte del cittadino;
- per rendere le strutture sanitarie responsabili verso l’utenza.
Associazione Consumatori ACP sostiene la richiesta di un sistema pubblico trasparente, e invita i cittadini a unirsi a questa battaglia di civiltà.
Il chirurgo che deve valutare un possibile intervento mi ha chiesto le immagini, non solo i referti, di una risonanza fatta anni fa. Ho i referti cartacei, ma non ho conservato il dischetto. Gli ospedali sono tenuti a conservarli? E come si fa a richiederli?
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Sì, gli ospedali devono conservare le immagini degli esami diagnostici (risonanze, TAC, ecografie ecc.) per un periodo di tempo stabilito dalla normativa, che in molti casi è di dieci anni.
Per richiederle, bisogna:
- contattare l’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) dell’ospedale dove è stato effettuato l’esame;
- compilare un modulo di richiesta, che spesso è disponibile sul sito della struttura;
- allegare un documento d’identità e gli estremi dell’esame (data, reparto, tipo di prestazione).
La consegna può avvenire:
- di persona;
- via posta elettronica;
- in alcuni casi anche con spedizione a domicilio, se previsto dal regolamento interno.
Alcune strutture forniscono i supporti gratuitamente, altre chiedono un piccolo contributo spese (es. 5 euro).
In alcune strutture private accreditate, gli esami costano meno se si presenta l’impegnativa del medico di base, anche se si paga di tasca propria. Un esempio: una risonanza con e senza contrasto passa da 462 a 382 euro con la ricetta. È solo una promozione o c’è il rischio che la struttura usi la prescrizione per ottenere rimborsi dal Servizio Sanitario? È una pratica legale?
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La possibilità di ottenere tariffe agevolate presentando l’impegnativa, anche in regime privato, è una prassi diffusa in molte strutture accreditate. Formalmente, non è vietata, ma solleva dubbi importanti.
La struttura dovrebbe:
- dichiarare chiaramente che l’esame è pagato dal paziente e non verrà rimborsato dal sistema sanitario;
- conservare la prescrizione solo a fini clinici e non amministrativi, se non si tratta di una prestazione convenzionata.
Se c’è il sospetto che l’impegnativa venga utilizzata in modo improprio (ad esempio per ottenere un rimborso pubblico non dovuto), è possibile fare una segnalazione all’ASL di competenza o alla Guardia di Finanza.
Si parla tanto di medicina territoriale, ma ogni medico di famiglia sembra gestire il rapporto con i pazienti in modo diverso. C’è chi riceve solo con appuntamento, chi risponde via mail, chi accetta richieste su WhatsApp, chi invece solo tramite segreteria telefonica. Per rinnovare una ricetta, in alcuni casi bisogna telefonare a orari precisi e insistere per mezz’ora. Possibile che non ci siano regole uguali per tutti?
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Il medico di famiglia è un professionista convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, ma gestisce autonomamente la propria organizzazione del lavoro: orari, modalità di contatto, canali digitali o telefonici.
Questo comporta differenze notevoli da un medico all’altro, e può creare disagi per i pazienti, soprattutto anziani o lavoratori.
Negli ultimi anni si è discusso molto di riformare la medicina generale, ad esempio prevedendo il passaggio dei medici alle dipendenze delle ASL per garantire maggiore uniformità e integrazione nel sistema. Ma al momento, ogni Regione può stabilire solo alcune linee guida generali, e non esistono regole nazionali vincolanti per modalità operative come prenotazioni, ricette, contatti o appuntamenti.
È comunque possibile:
- Segnalare disservizi all’ASL o all’Ordine dei medici;
- Chiedere chiarimenti sui propri diritti presso un’associazione di tutela.